Più o meno contemporaneamente, nel Cuneese, sempre in un supermercato, è stata segnalata la dicitura Birra Artigianale, sopra un’isola espositiva zeppa di marchi industriali: Nastro Azzurro, Bavaria, Tuborg, Poretti e altro.
Utilizzare il termine “artigianale” in relazione con “birra” può essere considerato fraudolento in Italia, perché nel nostro paese questa categoria di prodotti non esiste, non essendo prevista dalla legge.
Generalmente viene considerato artigianale il prodotto che viene realizzato in quantitativi limitati e con metodi manuali.
Non essendovi però alcuna disciplina che consenta di identificare con certezza ciò che è artigianale e ciò che non lo è, i contorni della definizione sono labili ed è certo rischioso inserirlo in etichetta, rischiando di ingenerare nel consumatore convinzioni errate sulla natura del prodotto venduto.
Altro problema è quello della cosiddetta Birra Agricola, termine cui vengono generalmente associate birre prodotte da aziende che, producendo in proprio almeno il 51% dell'orzo impiegato nella realizzazione del prodotto, possono accedere ai benefici di cui al DM 212/2010 (finanziamenti e regime fiscale agevolato).
Anche in questo caso però la dicitura “agricola” riferita alla birra, non può trasformarsi in un claim sulla qualità del prodotto, non esistendo alcuna disciplina in tal senso.
A questo punto, viene da chiedersi, quali sono le norme che disciplinano la birra in Italia?
L'attuale legislazione italiana sulla birra risale al 1962 ed al suo interno non è di fatto prevista una definizione di birra artigianale.
Questo segmento manifatturiero, nonostante la realtà veda nascere ogni anno una miriade di microbirrifici, rimane attualmente privo di garanzia, non possedendo uno status di alcun tipo.
A detta degli esperti nel settore, il prodotto birra è regolato da un insieme normativo troppo intricato ma che, allo stesso tempo, risulta insufficiente nel regolamentare in modo equo la situazione attuale.
Gli organismi di competenza e controllo del settore sono il Ministero dello Sviluppo Economico, il Ministero della Salute (che si occupa dei controlli igienico sanitari), il Ministero dell'economia e delle finanze (Agenzia delle Dogane – UTF: Accisa), il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (ICQRF: Controlli alla produzione - qualitativi merceologici, controlli alla commercializzazione – Etichettatura).
La legge n. 1354 del 16 agosto 1962, regola la disciplina igienica della produzione e del commercio della birra.
Da allora ad oggi questa legge, composta da 32 Articoli, ha subito numerose modifiche.
L'art. 1, comma 1 (sostituito dall'articolo 1 del DPR 30 giugno 1998 n° 272, che è possibile reperire nella sua integrità al seguente link) prevede una definizione di “birra”, che è, secondo la lettera della norma: “quel prodotto ottenuto dalla fermentazione alcolica con ceppi di Saccharomyces carlsbergensis o di Saccharomyces cerevisiae di un mosto preparato dal malto, anche torrefatto, di orzo o di frumento o di loro miscele ed acqua, amaricato con luppolo o suoi derivati o entrambi”.
Il luppolo, la sua produzione e certificazione, sono regolati invece dal Reg. (CE) N. 1850/06 della Commissione del 14/12/2006, relativo alle modalità di certificazione del luppolo e dei prodotti derivanti dal luppolo, e dal OCM 1308/13 Art. 77 – certificazione del luppolo, Art. 190 – importazioni di luppoli.
Né in questo articolo né in altri si parla però delle tecniche di “Rifermentazione” e di “Rifermentazione in bottiglia”.
Al comma 2 viene detto che “la fermentazione alcolica del mosto può essere integrata con la fermentazione lattica”.
Per quanto riguarda i batteri lattici e l' acidificazione è possibile consultare il Decreto Ministeriale del 2 maggio 1996 n° 325, che regola l'impiego di batteri lattici nell’acidificazione del mosto destinato alla produzione della birra, consentendo l'uso di batteri lattici appartenenti al genere Lactobacillus e dettando una serie di prescrizioni sulle loro caratteristiche ed impiego.
Il comma 3 così recita: “Nella produzione della birra è consentito l'uso di estratti di malto torrefatto ed altri additivi alimentari”.
Il D.M. 27 febbraio 1996 n° 209 (ultima modifica: D.M. 8 maggio 2006 n° 229, Regolamento recante il recepimento della direttiva 2003/114/CE che modifica la direttiva 95/2/CE relativa agli additivi alimentari diversi dai coloranti e dagli edulcoranti. Aggiornamento del decreto ministeriale 27 febbraio 1996, n. 209, concernente la disciplina degli additivi alimentari consentiti nella preparazione e per la conservazione delle sostanze alimentari) precisa gli additivi alimentari che possono essere utilizzati.
All'allegato V e seguenti troviamo: Coloranti: caramello semplice (E150a), caramello solfito caustico (E150b), caramello ammoniacale (E150c), caramello solfitato ammoniacale (E150d), Edulcoranti: acesulfame (E950), aspartame (E951), saccarina (E954), neoesperidina (E959), Additivi: Ac. lattico (E270), Ac. ascorbico (E300), ascorbato di sodio (E301) Ac. citrico (E330), gomma arabica (E414), alginato di 1,2 propandiolo (E405), polidestrosio (E1200), Antiossidanti: anidride solforosa e solfiti.
Il comma 4 sottolinea come “Il malto d'orzo o di frumento può essere sostituito con altri cereali, anche rotti o macinati o sotto forma di fiocchi, nonché con “materie prime amidacee e zuccherine” nella misura massima del 40% calcolato sull'estratto secco del mosto.”
Secondo i commenti degli esperti per Materie prime amidacee e zuccherine il legislatore probabilmente ha voluto consentire l’aggiunta di materie amidacee quali ad esempio “castagne” od altro e materie prime zuccherine quali “frutta” e/o miele ecc... nella elaborazione di particolari tipi di birra.
L'Art. 2 (sostituito dall'art. 1 del D.P.R. 30.06.1998 n° 272) dà poi alcune ulteriori definizioni: “La denominazione di “birra analcolica” è riservata al prodotto con grado Plato non inferiore a 3 e non superiore a 8 e con titolo alcolometrico volumico non superiore a 1,2%.
La denominazione di “birra leggera” o “birra light” è riservata al prodotto con Grado Plato non inferiore a 5 e non superiore a 10,5, con titolo alcolometrico volumico superiore a 1,2% e non superiore a 3,5%.
La denominazione di “birra” è riservata al prodotto con Grado Plato superiore a 10,5 con titolo alcolometrico superiore a 3,5%.
“birra speciale” se il Grado Plato non è inferiore a 12,5%,
“birra doppio malto” il grado non è inferiore a 14,5%.”
Nel definire le tipologie di birra la legge prende in considerazione solo la gradazione alcolica e nulla dice riguardo ai requisiti delle molteplici tipologie di birra: Abbazia, Ale, Lager, Bitter, Pils, Rossa, ecc…
Il comma 4 dispone infatti solamente che: “Quando alla birra sono aggiunti frutta, succhi di frutta, aromi o altri ingredienti alimentari caratterizzanti, la denominazione di vendita e completa con il nome della sostanza caratterizzante”.
L'articolo 3 prende in considerazione i requisiti delle materie prime: “È vietato impiegare nella fabbricazione della birra materie prime avariate guaste o contenenti sostanze che per natura, qualità e quantità possono essere nocive, è altresì vietato detenere le materie prime in siffatte condizioni nell'interno degli stabilimenti o delle fabbriche di produzione della birra.”
Quest'ultimo è stato giudicato un articolo obsoleto, in quanto utilizza termini generici e mette in difficoltà produttori e organismi di vigilanza.
Nella sostanza si rimanda ad una miriade di altre normative comunitarie e nazionali che impongono limiti e requisiti qualitativi, ma che risultano generici e non specifici per la birra.
Gli altri articoli dal 4 al 11, riguardano: i divieti uso di alcoli, i prodotti casalinghi, le malattie, le caratteristiche analitiche, l' acqua, la produzione e i locali, gli apparecchi ed gli impianti, i travasi e la purezza CO2.
Si rimanda all'allegato per la lettura delle norme.
Molto importante, invece, è l'articolo 12, che ha subito negli anni molti cambiamenti e che riguarda essenzialmente: l'etichettatura e la capacità dei recipienti.
La disciplina dell'etichettatura è poi contenuta e disciplinata più estesamente nel Decreto Legislativo 27.01.1992 n° 109 (e successive modifiche) in attuazione di due direttiva CEE (n° 89/395/CEE e n° 89/396/CEE) concernenti l’etichettatura, la presentazione della pubblicità dei prodotti alimentari.
Importante la revisione della normativa da parte del Reg. (UE) n. 1169/2011, entrato in vigore nel dicembre del 2014.
L'etichettatura e le relative modalità di realizzazione sono destinate ad assicurare la corretta e la trasparente informazione del consumatore:
- non devono indurre in errore l'acquirente sulle caratteristiche del prodotto alimentare e precisamente sulla natura, identità, qualità, composizione, quantità, conservazione origine o provenienza, sul modo di fabbricazione o di ottenimento del prodotto,
- non devono attribuire al prodotto effetti o proprietà che non possiede,
- non devono suggerire che il prodotto possiede caratteristiche particolari, quando tutti i prodotti analoghi possiedono le stesse caratteristiche,
- non devono attribuire al prodotto proprietà atte a prevenire, curare o guarire una malattia umana.
I divieti e le limitazioni valgono anche per la presentazione e la pubblicità dei prodotti.
La denominazione di vendita di un prodotto alimentare e' la denominazione prevista dalle disposizioni che disciplinano il prodotto stesso ovvero il nome consacrato da usi e consuetudini ovvero una descrizione del prodotto accompagnata, se necessario, da informazioni sulla sua natura e utilizzazione, in modo da consentire all'acquirente di distinguerlo dai prodotti con i quali potrebbe
essere confuso.
Per la birra si tratta di una delle cinque denominazioni indicate dall'art. 2 della legge 1354/62 (e successive modificazioni): birra analcolica, birra leggera o light, birra, birra speciale, birra doppio malto.
Indicazioni particolari per quanto riguarda l'etichettatura sono fornite dal Regolamento UE n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori.
L'art. 7 (pratiche leali di informazione) stabilisce che “le informazioni sugli alimenti non inducano in errore, in particolare: caratteristiche dell'alimento, Paese d'origine o luogo di provenienza, metodo di fabbricazione di produzione”.
Inoltre, l'art. 2,comma 2, lettera p) dello stesso, definisce una denominazione descrittiva: “ una denominazione che descrive l’alimento e, se necessario, il suo uso e che è sufficientemente chiara affinché i consumatori determinino la sua reale natura e lo distinguano da altri prodotti con i quali potrebbe essere confuso”.
Sembrerebbe che da questa norma possa derivare uno spiraglio di apertura per le indicazioni quali ad esempio “birra artigianale”.
La circolare del 10/11/2003 n° 168 riferita alla pronuncia n° 8884 del 09/11/2000 dell'Autorità Garante della Concorrenza e del mercato così stabilisce con riguardo ai prodotti artigianali:
“Nella commercializzazione di taluni prodotti artigianali,..., talvolta viene fatto con una certa enfasi riferimento alla «produzione artigianale», come se si trattasse di una garanzia di qualità organolettica, nutritiva o sanitaria superiore.
L'uso di diciture quali «lavorato a mano» e simili e' ingannevole quando soltanto alcune fasi secondarie e collaterali della produzione sono effettuate a mano. ...
Inoltre, sempre più spesso, viene fatto riferimento al tenore proteico e al contenuto in glutine sia delle materie prime che del prodotto finito. Questi messaggi devono essere idoneamente dimostrati e comportano la realizzazione dell'etichetta nutrizionale, in quanto viene fornita una informazione su un elemento fondamentale dell'etichettatura nutrizionale disciplinata dal decreto legislativo n. 77/1996: la quantità di proteine.
È vero che l'uso di diciture concernenti le caratteristiche del metodo di produzione costituisce una garanzia fornita al consumatore sul metodo, ma non si traduce, di regola, anche in un aumento della qualità del prodotto finito in termini di caratteristiche ingredientistiche, nutrizionali, chimico-fisiche, organolettiche ed igienico-sanitarie.
Delle metodologie artigianali viene fornito un elenco, non esaustivo ma di rilievo, nella pronuncia n. 8884 del 9 novembre 2000 dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, che si può così riassumere: la presenza di una struttura organizzativa tipicamente artigianale e/o familiare è caratterizzata dal basso numero di addetti e soprattutto dall'incidenza dell'apporto umano e personale nella produzione. Questo aspetto concerne, ovviamente ed unicamente, le caratteristiche dell'azienda. Pertanto non può in alcun modo essere utilizzato per presentare i prodotti come superiori nella qualità. L'azienda artigianale non può cioè trasformare la sua qualifica giuridica in un elemento di qualità dei prodotti finiti.
In tale contesto non si può non tener conto anche di quanto previsto dal decreto legislativo n. 74/1992 che, anche se di portata generale, vieta ogni forma di pubblicità subliminale e subordina l'uso dei termini «garantito e garanzia» e simili, quali «selezionato e scelto», alla precisazione in etichetta del contenuto e delle modalità della garanzia offerta.”
L'elenco degli ingredienti è costituito dall'enumerazione di tutti gli ingredienti del prodotto, in ordine di peso decrescente al momento della loro utilizzazione, esso deve essere preceduto dalla parola “ingredienti”.
Nella birra è obbligatorio solo per quella con grado alcolico di 1,2% volt., mentre la birra con grado superiore è esentata.
Le bevande alcoliche, infatti, sono esonerate dall’obbligo di riportare l’elenco degli ingredienti sull’etichetta, ai sensi della direttiva 2000/13/CE (la cosiddetta “direttiva etichettatura”, recepita in Italia con d.lgs. 109/92 e successive modifiche) e del regolamento UE n. 1169/2011.
E' fatto salvo, però, il dovere di citare la presenza di ingredienti considerati allergenici, introdotto con direttiva 2003/89/CE e seguenti (c.d. direttiva allergeni, attuata nel nostro Paese con d.lgs. 114/06) e consolidato nel nuovo regolamento UE n. 1169/2011.
L’associazione che rappresenta in Italia le industrie e le imprese artigiane di settore ha però proposto agli associati di inserire in etichetta (su base volontaria) la lista degli ingredienti, in virtù della trasparenza nei confronti dei consumatori, per comunicare la semplicità di una ricetta basata su materie prime naturali.
La citazione degli ingredienti sulle etichette delle birre commercializzate in Italia rimane perciò non obbligatoria ma consigliata e condivisa da molti produttori, nell’ambito di un programma di comunicazione che mira nel suo complesso a promuovere la conoscenza ed il consumo responsabile di questo prodotto.
Se la birra, poi, contiene un ingrediente caratterizzante, ad esempio aromi, frutta, o altre sostanze alimentari aggiunte, miele, coriandolo, buccia d'arancia, zenzero, questo va indicato.
Per come previsto, la denominazione di vendita è completata con il nome della sostanza caratterizzante.
Tuttavia, per le birre con grado alcolico superiore a 1,2% vol. non essendo richiesto l'elenco degli ingredienti, la sostanza caratterizzante può apparire direttamente nella denominazione di vendita.
Se l'elemento caratterizzante è presente in piccole quantità, la sua indicazione in etichetta non è obbligatoria.
Sull'etichetta va indicato il temine minimo di conservazione.
La quantità netta dei prodotti alimentari preconfezionati deve essere espressa in etichetta in unità di volume per i prodotti liquidi: Litro (l o L), centilitro (cl), millimetro (ml).
“Il titolo alcolometrico volumico effettivo” è il numero di parti in volume di alcole puro alla temperatura di 20°C contenuta in 100 parti in volume del prodotto considerato.
È espresso dal simbolo di “% vol”, preceduto dal numero corrispondente che può comprendere solo un decimale. Può essere preceduto dal termine “alcol” o dalla sua abbreviazione “alc”.
Il regolamento UE 1169/2011 non richiede più che questo dato sia presente nello stesso campo visivo del termine minimo di conservazione e della denominazione di vendita.
Una delle novità riguarda l’obbligo di dichiarazione nutrizionale, le relative tabelle sono destinate a occupare uno spazio di tutto rispetto sulle ridotte superfici delle etichette alimentari.
L'obbligo entrerà in vigore solo a fine 2016, ma le bevande alcoliche con più di 1,2% alcol in volume saranno totalmente esentate.
In tema di informazioni facoltative, una delle novità più importanti è il venir meno dell’obbligo di riportare la sede di produzione della birra.
La ratio è che per il consumatore non è importante dove viene realizzata la birra, ma chi ne è il responsabile della messa in commercio.
Con la normativa precedente, in etichetta era obbligatorio aggiungere l'identificazione della ditta produttrice, ovvero il nome o la ragione sociale o il marchio depositato più la sede del fabbricante o del confezionatore o di un venditore stabilito nella Comunità Economica Europea.
La sede dello stabilimento di produzione o di confezionamento poteva essere omessa se: a) lo stabilimento era ubicato nello stesso luogo della sede già indicata in etichetta, b) i prodotti erano preconfezionati da altri paesi per la vendita tal quali in Italia, c) i prodotti preconfezionati riportavano la bollatura sanitaria.
Inoltre, all'impresa con più stabilimenti era consentito indicare in etichetta tutti gli stabilimenti purché quello effettivo fosse evidenziato mediante punzonatura o altro segno.
Per l'impresa di distribuzione o vendita dei prodotti, invece, se sulle cui confezioni non era indicato il fabbricante o il confezionatore, la sede dello stabilimento doveva essere completata dall'indirizzo oppure da un' indicazione che ne agevolasse la localizzazione.
Con queste nuove regolamentazioni, invece, qualsiasi birrificio potrebbe deliberatamente decidere di rimuovere (o continuare a non riportare) tutte le informazioni riguardanti il sito di produzione.
Sarà quindi una scelta che ogni azienda deciderà di compiere, ma nella consapevolezza che i consumatori potranno sempre decidere su quale prodotto orientarsi, premiando, ovviamente, chi predilige la trasparenza nella comunicazione agroalimentare.