Tuttavia ciò che viene riportato in etichetta, attraverso immagini, slogan, pubblicità corrisponde sempre al vero? A volte non è così. Il “greenwashing” è quella pratica ingannevole utilizzata da alcune aziende per trasmettere al mercato un’immagine d’impegno a favore dell’ambiente senza supportare tale messaggio con azioni concrete.
Si verifica quando un’azienda investe in pubblicità orientata al mercato green molte più risorse di quante ne vengano impiegate per ridurre effettivamente il proprio impatto ambientale. Letteralmente la parola “greenwashing” significa “lavata di verde” ed è un fenomeno nato nei primi anni ’90 negli Stati Uniti, e che negli ultimi anni vede sempre più espansione, da quando i consumatori sono più attenti alla salubrità ed alla tutela dell’ambiente.
La pratica del “greenwashing” è dannosa per l’ambiente, per i consumatori e per le aziende veramente certificate eco-sostenibili e interessa tutti i settori produttivi e commerciali, dall’edilizia, all’alimentare, dall’abbigliamento, all’energia. In particolare, a causa di queste pratiche il consumatore diventa talvolta diffidente e non riesce più a distinguere un’offerta veramente biologica e green da un’altra che lo è solo in apparenza e probabilmente non comprenderà perché un prodotto con certificazione debba costare di più di un altro prodotto solo nominato bio.
Le aziende veramente biologiche vedono invece vanificati i propri sforzi di fronte a questo genere di promozione fasulla. Alcune organizzazioni sono impegnate nello smascheramento di quelle aziende che utilizzano questa pratica, ad esempio Greenpeace attraverso il sito stopgreenwash.org e Terra Choice attraverso il portale web sinsofgreenwashing.com.
Inoltre, all’interno del Comitato Tecnico ISO/TC 207, sono stati sviluppati lo standard ISO 14024, che descrive i requisiti delle etichette ambientali di tipo I, lo standard ISO 14025 e la norma ISO 14021:2012, che specifica i requisiti per le asserzioni ambientali auto-dichiarate, comprendendo dichiarazioni, simboli e grafici riguardanti i prodotti. Questa norma descrive i termini selezionati utilizzati comunemente nelle affermazioni ambientali e fornisce le qualifiche per il loro utilizzo, infine, descrive una metodologia generale di valutazione e verifica per le asserzioni ambientali auto-dichiarate e i metodi specifici di valutazione e verifica per le asserzioni selezionate nella norma (ad esempio secondo la norma non devono essere utilizzate asserzioni ambientali vaghe e non specifiche, e vieta l’utilizzo di frasi come “sicuro per l’ambiente”, “amico dell’ambiente”, “amico della terra”, “verde”, …).
In Italia il fenomeno è noto fin dal 1996 quando l’Antitrust si è trovato ad occuparsi del caso della SNAM – Società nazionale Metanodotti, che aveva promosso sui giornali ed in televisione i suoi servizi facendo leva sulle caratteristiche “ecologiche” e “naturali” del metano. Alcuni degli slogan incriminati erano: “Il metano è natura”, “Il metano è un gas naturale ed è considerato il combustibile più pulito perché emette meno sostanze inquinanti” e “Il metano è una fonte di energia che rispetta noi stessi e l’ambiente che ci circonda, restituendo all’uomo la sua aria, all’Italia il suo patrimonio ambientale ed artistico”.
Questi messaggi sono stati definiti dall’Antitrust “fattispecie di pubblicità ingannevole”, infatti, il metano diventa agente inquinante nel momento stesso in cui viene usato, liberando anidride carbonica, azoto e altre sostanze dannose durante la sua combustione.
Un altro caso interessante affrontato dall’Antitrust è quello della Veka AG, società che nel 2006 è stata sanzionata dall’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato per aver diffuso pubblicità ingannevoli che esaltavano l’eco-compatibilità dei suoi prodotti in PVC, la materia plastica più usata al mondo.
L’Antitrust ha poi ritenuto ingannevoli i messaggi pubblicitari diffusi dalla società Acqua Minerale San Benedetto (2009), Fonti di Vinadio (2012) e Ferrarelle (2012) volti a promuovere le caratteristiche eco-friendly delle loro bottiglie in Pet o plastica vegetale. Nel caso San Benedetto l’autorità così ha opportunamente specificato: “Poiché tali claim descrivono o evocano una qualità che vale a distinguere il prodotto offerto sotto un profilo che viene valutato positivamente dai consumatori…costituisce onere informativo minimo imprescindibile, a carico dei professionisti che intendono utilizzare tali vanti nelle proprie politiche di marketing, quello di presentarli in modo chiaro, veritiero, accurato, non ambiguo né ingannevole. Tale onere comporta, pertanto, l’esigenza che il claim ambientale sia attendibile e verificabile, e non utilizzato in modo generico, privo cioè di precisi riscontri scientifici e documentali.”
Un altro problema riguarda quelle aziende che fanno pubblicità che sono ingannevoli, ma non sanzionabili, oppure espongono risultati ambientali che riguardano solo una parte della loro attività. Un esempio potrebbe essere dell’azienda alimentare che afferma di rispettare l’ambiente attraverso l’utilizzo di energie rinnovabili e poi fa uso di materie prime che sono ricavate da pratiche distruttive dell’ecosistema da cui provengono L’unica scelta che rimane al consumatore per proteggersi da questa pratica è come sempre quella di leggere, di informarsi e non credere alle apparenze, evitando di comperare quei prodotti che millantano troppo qualità che poi non vengono garantite dalle certificazioni apposite. A livello pratico l’unico consiglio che si può dare al consumatore è poi quello di affidarsi a certificazioni trasparenti e riconosciute che, se non altro e sebbene non siano certo infallibili, sottendono controlli e l’adozione di procedure durevoli e garantiste per il loro ottenimento (stiamo parlando ad esempio dei marchi Ecolabel e Biologico con i relativi loghi, normati a livello europeo, o degli standard ISO accennati più sopra).